Come si sta spegnendo demograficamente l'Italia
Dalla Sardegna in crisi profonda all'Alto Adige che resiste: i dati Eurostat mostrano un paese che affronta il crollo delle nascite
L’Italia si trova in una profonda crisi demografica destinata ad avere effetti su tutti gli aspetti, dalla crescita economica alla sostenibilità del sistema pensionistico passando per le scuole. I dati recentemente pubblicati da Eurostat sul tasso di fecondità a livello regionale confermano che il nostro paese presenta alcuni dei valori più critici dell’intero continente.
Il tasso di fecondità totale dell’Unione Europea si è attestato nel 2023 a 1,38 nascite per donna, il minimo storico da quando sono iniziate le rilevazioni nel 2001. Le nascite complessive sono scese a 3,7 milioni, con un calo del 16,3 per cento rispetto ai 4,4 milioni del 2016. L’accelerazione è evidente negli ultimi due anni, con riduzioni del 5,1 per cento nel 2022 e del 5,4 per cento nel 2023. Ma le stime mostrano l’Italia ha registrato nel 2024 un minimo storico di 1,18 figli per donna con meno di 370.000 nascite, e le proiezioni Istat per il 2025 indicano un ulteriore crollo a 1,13, con un calo del 6,3 per cento delle nascite rispetto all’anno precedente.
Nel panorama italiano, la Sardegna registra il dato peggiore con un tasso di fecondità di 0,91 nascite per donna, posizionandosi tra i valori più bassi non solo a livello nazionale ma dell’intera Unione. L’Abruzzo e la stessa Sardegna hanno sofferto nel 2024 cali annuali delle nascite rispettivamente del 10,2 e del 10,1 per cento. La regione insulare si colloca in una fascia critica che nell’UE coinvolge principalmente aree del sud Europa: la Spagna presenta il blocco più consistente di territori sotto la soglia di 1,0, con le Canarie a 0,84, le Asturie a 0,94, la Cantabria a 0,97 e la Galizia a 0,99. Anche la Grecia mostra valori particolarmente contenuti, con l’Attica a 1,18 e diverse altre regioni appena superiori.
Il tasso di fecondità necessario per garantire l’equilibrio demografico in assenza di immigrazione è pari al 2,10 figli per donna nei paesi sviluppati. Questo valore tiene conto di diversi fattori: una minima quota di mortalità infantile, seppur drasticamente minore rispetto al passato, il fatto che non tutte le bambine raggiungono l’età riproduttiva e un leggero squilibrio naturale tra nascite maschili e femminili.
Il resto del territorio italiano si distribuisce in una forbice relativamente ristretta. La Basilicata si ferma a 1,09, seguita da Molise (1,10), Lazio e Umbria (entrambe 1,11), Toscana (1,12) e Abruzzo (1,14). Le regioni del Nord-Ovest mostrano valori sostanzialmente omogenei: Liguria, Piemonte e Valle d’Aosta registrano tutte 1,17, mentre la Lombardia, insieme a Veneto e Friuli-Venezia Giulia, si attesta a 1,21. L’Emilia-Romagna raggiunge 1,22, mentre le regioni meridionali presentano una maggiore variabilità: Puglia a 1,20, Calabria a 1,29, Campania a 1,30 e Sicilia a 1,32.
L’eccezione più significativa è la Provincia Autonoma di Bolzano, che con 1,57 nel 2023 e una stima di 1,55 per il 2025 rappresenta un caso di relativo successo. Dagli anni Novanta, quando il tasso era allineato alla media nazionale, l’Alto Adige ha progressivamente costruito un vantaggio che dal 2010 lo mantiene stabilmente al primo posto tra le regioni italiane, con un tasso di fecondità oggi superiore alla media europea e più elevato rispetto a qualsiasi regione di Germania, Austria o Svizzera. Il modello sudtirolese si è sviluppato nell’arco di trent’anni attraverso un ecosistema integrato: 200 euro mensili per figlio fino ai tre anni, il programma “Ben Arrivato Bebé” con kit per neonati e voucher per libri, la tessera “Euregio Family Pass” per trasporti pubblici agevolati, sconti nei supermercati per famiglie con tre o più figli, e il sistema “Casa Bimbo” che permette forme flessibili di assistenza domiciliare semi-informale. La chiave del successo risiede nella coerenza trentennale delle politiche: segnali chiari, prevedibili e costanti da parte delle istituzioni che hanno consolidato la fiducia delle famiglie.
Il demografo Francesco Billari della Bocconi sottolinea come i genitori debbano percepire il clima in cui decideranno di avere un figlio come un clima stabile che non dipende da che partito governa in quel momento. L’Alto Adige coniuga benessere economico, qualità della vita elevata e un’infrastruttura di supporto che guarda con naturalezza ai modelli del Nord Europa, rendendo la transizione alla genitorialità meno drammatica. Anche Trento (1,28) e Valle d’Aosta confermano che contesti locali favorevoli possono produrre risultati misurabili, quest’ultima con incrementi recenti delle nascite legati anche all’attrattività migratoria.
Il confronto europeo rivela dinamiche differenziate ma un denominatore comune: il crollo accelerato della fecondità. Le regioni della Francia metropolitana hanno valori consistentemente superiori alla media europea: Piccardia a 1,73, Provenza-Alpi-Costa Azzurra a 1,73, Centro-Valle della Loira a 1,70, l’Île-de-France a 1,71, Alta Normandia a 1,68 e Nord-Passo di Calais a 1,67. Con un tasso nazionale di 1,68 figli per donna, la Francia ha il valore più alto d’Europa, frutto di oltre un secolo di politiche pro-famiglia coerenti e continuative. La nazione ha invertito la propria rotta demografica attraverso un sistema articolato che spende tra il 2,9 e il 3,6 per cento del PIL in politiche familiari, contro l’1,4 per cento dell’Italia.
Il sistema francese si basa su un programma di sicurezza sociale familiare che include sia sussidi universali che benefici means-tested: sovvenzioni alla nascita, assegni mensili per i primi tre anni di vita del bambino, sussidi per chi riduce l’orario di lavoro per la cura dei figli, integrazioni per l’assistenza all’infanzia, assegni per famiglie con due o più figli, e numerosi altri sostegni. Il sistema fiscale utilizza il quotient familial, che prevede una divisione del reddito familiare riducendo drasticamente il carico fiscale per le famiglie con figli. Le ricerche del demografo Lyman Stone indicano che queste politiche hanno aumentato durevolmente il tasso di fecondità francese di circa 0,3 figli per donna. Tra il 2006 e il 2014, la Francia aveva un tasso di 2,0, prossimo alla sostituzione naturale. Il declino al 1,68 attuale è iniziato nel 2015, lo stesso anno in cui il governo decise di tagliare o congelare alcuni sussidi familiari. Anche il lato francese dei confini con Spagna e Italia mostra tassi sistematicamente superiori rispetto ai versanti confinanti, dimostrando che l’effetto non è meramente culturale: la Corsica ha un tasso più alto di Sardegna, nonostante la prossimità geografica.
Le capitali confermano sistematicamente i valori più bassi dei rispettivi paesi: Praga a 1,31, Budapest a 1,21, Vienna a 1,17, Malta a 1,06, Berlino a 1,23, Lipsia a 1,14. Anche le regioni scandinave, con i loro sistemi di welfare avanzati, mostrano tassi contenuti: Helsinki-Uusimaa a 1,22, il sud della Finlandia a 1,19, Stoccolma a 1,40. La Penisola Iberica presenta contrasti marcati: Madrid a 1,10, Barcellona a 1,11, i Paesi Baschi a 1,15, mentre il Portogallo tiene con l’Algarve a 1,71 e la Penisola di Setúbal a 1,73. La Bulgaria presenta il Yugoiztochen a 2,14, il valore più alto dell’UE continentale, e il Severozapaden a 1,94, ma si tratta di eccezioni in un panorama dove solo sei regioni superano la soglia di sostituzione di 2,10.
L’età mediana delle madri al parto è aumentata da 30,8 a 31,8 anni tra il 2013 e il 2023 in Europa, mentre l’età media è salita da 29,0 a 31,2 anni negli ultimi due decenni. Le regioni attorno ad Atene detengono i primati europei, con Voreios Tomeas Athinon a 35,6 anni di età mediana. In Italia, l’età al primo figlio ha superato i 32 anni e mezzo, il record negativo dell’Unione Europea. Billari spiega che il rinvio è comune a tutto il mondo e su questo non si torna indietro, quello che devono fare le società è adattarsi a una situazione in cui i figli si inizia a farli più tardi. Il fenomeno è dovuto a percorsi formativi più lunghi, carriere da consolidare per entrambi i generi, e soprattutto la necessità percepita di un doppio reddito prima di affrontare la genitorialità. All’opposto, le regioni bulgare e rumene presentano le età più basse: Sliven in Bulgaria registra una mediana di 23,5 anni e una media di 25,0 anni, pur mantenendo un tasso di fecondità di 2,58.
I casi dell’Alto Adige e della Francia potrebbero suggerire che basti investire risorse nelle politiche familiari per invertire il trend, ma la realtà è più complessa. La semplice spesa pubblica o i trasferimenti diretti di denaro si sono rivelati largamente inefficaci. L’Italia spende 20 miliardi annui in Assegno Unico Universale, l’1 per cento del PIL, eppure il tasso di fecondità ha toccato il minimo storico. Le ricerche pubblicate su Nature Communications e Population and Development Review convergono: i bonus in denaro producono effetti minimi e temporanei, con elasticità dell’1-2 per cento. La letteratura scientifica indica che gli asili nido universali producono effetti da cinque a dieci volte superiori rispetto ai trasferimenti: ogni 10 per cento di aumento nella copertura degli asili nido genera incrementi di 0,10-0,12 figli per donna, con impatti duraturi sulla fertilità.
Ma anche i paesi che hanno costruito sistemi di welfare familiare tra i più avanzati al mondo stanno scoprendo quanto sia difficile sostenere tassi di fecondità elevati nel lungo periodo. La Norvegia, che offre fino a 59 settimane di congedo parentale pagato e una copertura degli asili del 91 per cento, è crollata da 1,98 nel 2009 a 1,41 nel 2022. La Finlandia ha raggiunto 1,26 nel 2023, un minimo storico nonostante decenni di politiche generose. Perfino la Svezia ha visto il proprio tasso scendere progressivamente. Questa tendenza suggerisce l’esistenza di un “soffitto” demografico difficile da superare, collocato intorno a 1,8-2,0 figli per donna. Le cause sono molteplici: l’innalzamento dell’età al primo figlio riduce la finestra riproduttiva disponibile, con possibilità di gravidanza che crollano dopo i 35 anni. Si aggiunge un fenomeno culturale più sottile: anche in società egualitarie, quando entrambi i partner investono nelle proprie carriere, entrambi vivono conflitti tra lavoro e famiglia che nessuna politica può eliminare completamente.
Per l’Italia, le implicazioni della crisi demografica si estendono ben oltre i numeri delle nascite, toccando l’intera struttura economica e sociale del paese. Con una longevità record di 83,5 anni raggiunta nel 2024, l’Italia ha paradossalmente il numero medio di anni lavorati più basso dell’Unione Europea: appena 34 anni su una vita di 83. Il tasso di occupazione rimane il più basso dell’UE, sia per le donne che per gli uomini, mentre la quota di laureati si ferma al 32 per cento, penultima in Europa dove altri paesi superano il 50 per cento. C’è poi un dato spesso trascurato: un’importante parte del calo delle nascite non è dovuto alle scelta delle coppie di avere meno figli, ma semplicemente dal fatto che ci sono meno coppie in età riproduttiva. È la conseguenza diretta del crollo delle nascite di trent’anni fa, un effetto a cascata che si autoalimenta e che rende sempre più difficile invertire la tendenza.
Di fronte a queste dinamiche, c’è l’idea che l’immigrazione possa risolvere il problema demografico europeo. Ma gli studi dimostrano che per compensare il crollo delle nascite e mantenere rapporti sostenibili tra popolazione attiva e pensionati servirebbero flussi migratori di entità tale da risultare politicamente insostenibili, con quote di popolazione nata all’estero che dovrebbero superare il 30-40 per cento in pochi decenni. La questione si complica ulteriormente perché molti paesi da cui tradizionalmente migrano le persone stanno sperimentando anch’essi crolli demografici e crescita economica, riducendo la pressione migratoria. Questo significa che la competizione tra paesi occidentali si concentrerà sui migranti qualificati, mentre il rischio è di dover fare sempre più affidamento su immigrazione poco qualificata proprio quando le economie avanzate richiedono forze lavoro sempre più specializzate. Il consenso democratico per livelli molto elevati di immigrazione, inoltre è debole in tutta Europa e gli studi mostrano che sta facendo aumentare i voti dell’estrema destra.
La demografia contemporanea mostra che invertire il declino della natalità non è semplicemente una questione di volontà politica o di risorse economiche. Come conclude la ricerca scientifica, servono pacchetti integrati di politiche strutturali: asili nido universali, congedi parentali generosi con quote paterne non cedibili, scuole a tempo pieno, sostegni abitativi per giovani coppie, contratti stabili invece di precarietà. Ma anche in quel caso, come dimostrano i crolli recenti nei paesi nordici, i risultati potrebbero rivelarsi più modesti di quanto auspicato, scontrandosi con limiti strutturali e cambiamenti culturali profondi che vanno ben oltre la portata delle politiche pubbliche tradizionali. L’immigrazione, per quanto importante nel breve termine, non può rappresentare una soluzione duratura né politicamente sostenibile ai livelli che sarebbero necessari.
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Grazie per l'articolo ricco di dati e spunti.
E' un argomento molto complesso ed è certamente difficile trovare un'unica causa.
Il problema economico è relativo: sono meridionale e qui a fare più figli sono proprio quelli con meno possibilità di mantenerli secondo gli standard che oggi ci si aspetta. Ma si potrebbe fare un ragionamento più esteso al riguardo.
Credo che sia anche una diversa scala di priorità negli individui a determinare il declino demografico, in particolare come sono concepiti i moderni rapporti di coppia.
Crescere dei figli richiede un rapporto stabile e duraturo (che sia omo o etero) in particolare in una società dove finalmente le donne riescono a prendersi i propri spazi.
Parlo da padre di 2 figli under 10.
Se vengono a mancare i presupposti, i figli rappresentano un ostacolo più che un fine e le conseguenze sono quelle nei numeri.
Da padre di 3 figli non posso che rattristarmi nel vedere come sia impossibile in Italia investire sulla famiglia. L'unico vero investimento che ognuno di noi dovrebbe avere in mente è la famiglia (di qualsiasi sorta, non sono un fan di quella tradizionale). Ma tutto rema contro, non solo i dati. La miopia delle politiche italiane ha secondo me addirittura accelerato un processo che, seppur fisiologico nei paesi avanzati, non andrebbe certamente incentivato! E allora penso da qui a 30 anni , a quando non avremo forza lavoro nè nuove competenze ma solo un disperato bisogno di care-giver e sanità al collasso. Possano i nostri figli perdonarci ... ah no ... quali figli?